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L'undecimo comandamento

X. Il monachino biondo era assai lungi dallo immaginarsi d'aver fatto quella grande impressione sull'animo de' suoi compagni. La bellezza è sempre consapevole, non lo nego; ma una donna che si traveste da uomo sa anche di perdere il cinquanta per cento delle sue attrattive. E frate Adelindo non badava punto a quegl'impeti spontanei d'ammirazione che la sua faccia di serafino destava tra i riformati di San Bruno, come essi burlescamente si chiamavano qualche volta. Confidava, nella sua giovanile audacia, di non essere scoperto, e godeva la novità di quella vita, senza sapere come sarebbe andata a finire. Ma proprio senza saperlo? S'ha a credere che il biondo monachino non avesse uno scopo? No, lettori, non lo credete. Ma, per intanto, venite con me. La miglior maniera per averne l'intiero, è quella di far procedere il racconto. Entrati sotto l'atrio della caverna, i conventuali di San Bruno ammirarono quel saggio architettonico di madre natura e tutte le fioriture ond'era stato adornato dall'incomparabile artista. Poscia, come i visitatori d'una casa che vogliono veder tutto fin da principio, andarono ad esplorare i tenebrosi recessi del luogo. La caverna si estendeva un mezzo miglio nelle viscere del monte, ora restringendosi, ora allargandosi da capo, ma tutta d'un filo, come una grande spaccatura interna del monte. La causa di quella spaccatura? Forse era da vederci l'ultimo sfiatatoio rimasto al vulcano che aveva sollevato dal fondo dei mari antichissimi quello strato calcareo; forse era effetto più modesto e più lento di una erosione delle acque. Io non mi ci confondo, e lascio la soluzione del problema agli studi del padre Anacleto. Qua e là i nostri esploratori si abbattevano in fantastiche vedute, che sarebbero state una vera fortuna per l'albo di frate Adelindo, se il nostro serafino pittore ci avesse avuto là dentro un raggio di sole, scambio del lume incerto d'una torcia di resina. La via in qualche punto risaliva, stretta fra due ordini di stalagmiti, che si addensavano le une sulle altre come i colonnini d'un chiostro; altrove si arrotondava la vôlta in cupolette alabastrine, o si allungava in peducci e festoni, campati in aria che era una vaghezza a vederli. Frequentissime occorrevano lungo le scabre pareti le pile dell'acqua benedetta, esempi illustrativi dell'antico adagio: gutta cavat lapidem. Ma la meraviglia più grande fu una specie di cattedra, formata su d'un rialzo dello scoglio dal largo tondeggiamento di una grossa stalagmite, e incoronata in alto da un mezzo cerchio di stalattiti, che raffiguravano un baldacchino. Il fraticello biondo, gettato uno de' suoi soliti gridi d'ammirazione ingenua, era corso a piantarsi su quella cattedra, restando là in piedi, elegante a vedersi come un santo di Donatello nella sua nicchia di marmo. E il padre Ottaviano aveva subito proposto di chiamare quel punto della caverna "il pergamo di frate Adelindo". Gli altri avevano approvato; il serafino si era fatto rosso come una fravola, e si era affrettato a saltare da quel tronco di colonna, per timore che a qualcheduno, nel lodevole intento di agevolargli la calata, venisse il ticchio di andarlo a pigliare di peso. La ricreazione era finita e incominciava il lavoro. Vi ho già detto che il padre Anacleto era andato nella caverna delle Streghe per trovare qualche saggio d'archeologia preistorica, dei cocci, delle armi di selce, delle ossa lavorate e via discorrendo. La caverna doveva essere stata abitata, come tutte le altre degli Appennini, nei tempi in cui l'uomo non aveva ancora imparato l'arte di fabbricarsi una casa di pietra, e le capanne non offrivano bastante riparo contro le fiere dei boschi, o contro gli assalti delle vicine tribù. Le tracce dell'uomo preistorico erano evidenti anche nella caverna delle Streghe. A quell'altezza dal suolo coltivabile, in una cavità rocciosa come quella, lo strato di terriccio appariva profondo, e certamente non ci si era formato da sè, per l'azione dell'acqua sulla pietra, poichè questa era troppo salda, e quella filtrava in così poca quantità, da bastare appena al sostentamento delle felci che tappezzavano alcune parti della vôlta. Restava un dubbio. La caverna aveva servito come abitazione, o solamente come luogo di sepoltura? Quei poveri rappresentanti della specie umana, nei primi tempi dell'epoca quaternaria, solevano vivere nelle caverne donde avevano cacciate le fiere; ma in alcune di esse, meno accessibili, o più lontane dai luoghi donde traevano il sostentamento, usavano compiere i riti funebri, dopo averci sepolti i loro trapassati. Spesso, o perchè i luoghi di rifugio fossero scarsi, o scarsa la reverenza delle tombe, una medesima caverna era abitazione e sepolcreto ad un tempo, ed il focolare destinato al banchetto funebre era lo stesso focolare domestico, che seguitava a dar fiamma sulla fossa del morto. Il padre Anacleto si proponeva di chiarire più tardi a quale dei due generi appartenesse la caverna delle Streghe. Prima di tutto importava di rinvenire le traccie dell'uomo, di qualunque natura si fossero. E il nostro esploratore, dato uno sguardo in giro, per argomentare dalla curva delle pareti da qual lato fosse la maggior profondità del terreno, deliberò d'incominciare gli scavi poco lontano dal mezzo dell'atrio, e verso l'interno della montagna. Frattanto, nell'angolo più lontano, sotto la direzione di fratello Giocondo, e con l'assistenza del padre Prospero, s'impiantava un focolare posticcio, per riscaldare le conserve alimentari che doveano servire alla colazione. I primi colpi di vanga furono dati alla svelta e con molta confidenza. Ma come fu scotennato il terreno, l'opera procedette a mano a mano più riguardosa, volendo il padre Anacleto por mente a tutti gli avanzi che si sarebbero rinvenuti, e sopratutto riscontrare nel taglio verticale del terreno la successione degli strati, certamente riconoscibili alla diversità di colore e di composizione, corrispondenti qualche volta ad età d'uomini, ma più spesso a gradi e a ricorsi di civiltà, presso quelle povere genti che in Italia precedettero l'arrivo e la diffusione della schiatta pelasgica. Infatti, nei primi strati, s'incominciarono a trovare rottami di stoviglie, il cui colore rosso carico significava una diligente cottura, e le sagome tondeggianti, e qualche traccia d'ornato lineare, accennavano un certo grado di perfezione a cui era giunta l'industria figulina. E questo poteva denotare che gli abitanti della caverna, ancora mezzo selvaggi, erano in relazione con gente più civile, o abitante al piano, o venuta pur dianzi da lontano paese, presso cui le arti più utili alla vita erano già bastantemente avanzate. Proseguendo gli scavi, i cocci apparivano di forma più rozza, e di meno diligente cottura, fino al segno di parere a mala pena riscaldati al fuoco; indizio evidentissimo d'una industria casalinga, che non conosceva commerci, nè intendeva nulla di perfezionamento nell'arte. Quanto alle ossa lavorate e alle armi di selce, non se ne vedeva pur l'ombra. Cosa naturalissima, fintanto che non si scoprisse una tomba. Infatti, le armi di pietra e le ossa ridotte ad uso domestico, essendo allora preziosissime per la difficoltà del loro adattamento, erano più rare, ed era già molto che se ne mettesse un saggio accanto ai cadaveri, quasi a non privare i morti di ciò che avevano avuto di più caro e di più utile in vita. Il padre Anacleto spiegava ad alta voce tutte queste belle cose, mentre dava occhio al proseguimento dell'opera. Gli strati del terreno si succedevano con varia vicenda di chiaro e di scuro. Tutto ad un tratto, le vanghe diedero un suono sordo, come di cosa asciutta e consistente che si sfaldi. E venne fuori una sostanza grigia, lamellare, in cui si riconobbe tosto uno strato di ceneri. Qui per l'appunto cascava il dubbio. Erano quelle ceneri un avanzo di banchetto funebre, o indizi d'un focolare domestico? Il padre Anacleto, interrogato dal serafino biondo, che prendeva tanto diletto in quella esplorazione quanto suo zio ne prendeva negli apparecchi della colazione, mostrò di credere al banchetto funebre, anzichè al focolare domestico. E ne disse anche le ragioni; verbigrazia la postura del deposito, che non corrispondeva alla naturale collocazione d'un focolare. La caverna essendo abitata da una famiglia, o da un aggregato di famiglie consanguinee sotto l'autorità d'un capo, non era da credersi che il focolare fosse posto quasi nel mezzo, per dar noia a tutti; laddove la presenza delle ceneri, intesa come avanzo d'un banchetto funebre, si spiegava benissimo colà, portando la consuetudine che il fuoco si accendesse sulla tomba del congiunto, a cui si facevano i funerali. Accanto a quell'ammasso di cenere si scopersero altri cocci ed ossa di animali domestici, ma rotte irregolarmente, e qua e là intaccate da solchi poco profondi. I banchettanti ci avevano di sicuro lavorato attorno coi denti. L'attenzione degli esploratori andava a mano a mano crescendo. Ma essa arrivò al colmo, quando, a forse un metro e mezzo di profondità, le vanghe diedero un suono metallico, scoprendo la grigia e scabra superficie di una falda di sasso. Il priore non volle che il lastrone fosse subito alzato; ma fece scavare torno torno il terreno ed allargare la buca. Mercè questa operazione, fu posto in chiaro che quel lastrone orizzontale posava su altri quattro, verticalmente piantati. Un silenzio religioso regnava nella caverna. Qualche cosa di sepolto cinque o diecimil'anni addietro stava per ritornare alla luce. —A voi, fratello Adelindo,—disse il priore,—copiate questa forma di sepoltura, prima che sia scoperchiata.— Il serafino biondo mise mano al suo albo e segnò con pochi tratti sulla carta il fondo della buca, sul cui orlo si era seduto. Com'ebbe date le ultime ombreggiature al disegno, si tirò da banda e fu rimosso il lastrone. Apparve prima di tutto…. Cioè, diciamo le cose come stanno, non apparve niente; che non poteva dirsi qualche cosa, almeno per gli occhi, il terriccio nerastro di cui era piena la buca. Ma rimuovendolo con garbo, incominciarono a presentarsi al tatto, quindi alla vista, alcuni frammenti d'ossa, in cui, e per la forma loro, e per la collocazione che avevano, il padre Anacleto ravvisò le coste di uno scheletro umano. Mescolati a questo si rinvennero parecchi ossicini di forma irregolare e di grandezze diverse, che potevano appartenere al carpo e al metacarpo delle mani. Così era difatti, e si trovarono anche le falangi delle dita; segno che il cadavere era stato composto là dentro con le mani incrociate sul petto. Proseguendo l'opera con ogni diligenza maggiore, per non iscompigliare la disposizione anatomica delle parti, si scopersero i radii e gli omeri, indi il teschio, e via via tutte le membra in quella postura di persona raggomitolata, a cui era stato costretto il cadavere, per farlo capire in quella piccola buca. Il serafino biondo aveva ripigliato il suo albo. E quegli avanzi d'un corpo raccolto nel sonno eterno furono ritratti dalla matita sulla carta; dopo di che, pezzo per pezzo, lo scheletro fu levato dalla fossa e collocato in un canestro. Il teschio era benissimo conservato, e la bianchezza e la porosità del tessuto osseo facevano fede di molta antichità, non meno che della asciuttezza del suolo. Del resto, la sua superficie allappava la lingua; cioè a dire vi lasciava quella impressione, accompagnata da un cotale asciugamento, che fanno sulle labbra, e sul palato, certe sostanze acerbe od amare. Voi qui, lettori umanissimi, farete le maraviglie, ed anche qualche gesto di orrore, pensando che se quelle ossa allappavano la lingua, bisogna dire che qualche lingua ci si fosse accostata. Ma che volete farci? I dotti son fabbricati così, e non c'è verso di mutarli. Sanno che quel gusto d'asciutto ed acerbo nella superficie delle ossa è indizio d'antichità, e l'accertamento d'un fatto così importante val pure un piccolo sacrifizio. Del resto, o non avete mai veduto nei quadri santa Maria Maddalena al deserto? Anche lei bacia un teschio, e senza averci la scusa nell'amore della scienza. Pure, nessuno di voi inorridisce, vedendo una cosa simile. Non inorridite dunque, vi prego, se vedete il padre Anacleto accostare la lingua all'osso frontale, o al parietale d'un povero sepolto di cinquanta o cento secoli fa. E tiriamo innanzi. Le suture del cranio, molto visibili nella loro indentatura, indicavano una persona giovane; l'altezza mediocre dello scheletro e la forma del pelvi lasciavano argomentare che fosse lo scheletro d'una donna. I denti erano piccoli, bianchi perlati, e lo smalto era integro; fatto maraviglioso, quantunque abbastanza comune in simili scoperte. Accanto al teschio, e proprio all'altezza dell'orecchio, era una piccola coppa d'argilla nera, in cui si rinvenne una sostanza grumosa e rossiccia. Era la terra d'ocra, di cui gli antichissimi nostri progenitori, non dissimilmente dai moderni selvaggi d'America, usavano tingersi le membra. Un'altra particolarità indicava che quello scheletro apparteneva ad una donna, ed era la mancanza d'armi nel sepolcro, mentre c'erano in quella vece parecchi aghi e punteruoli d'osso di cervo, quelli riconoscibili dalla cruna, questi dal capo tondeggiante. Una cinquantina di conchiglie bucate, che si raccolsero nel terriccio a poca distanza dalle prime vertebre, dimostrava che la donna era stata sepolta con la sua collana, e che essa era certamente di condizione non povera, poichè aveva un monile di quella fatta, composto di tal materia che doveva esser cavata da luogo lontano. Rammentate infatti che la caverna era sull'Appennino, e distante parecchie giornate dal mare. Tutti quegli avanzi, raccolti con diligenza dal fondo della buca, erano a mano a mano deposti in un canestro. Il padre Anacleto ci vedeva il principio d'un museo preistorico di San Bruno. La caverna delle Streghe, vasta com'era, poteva dar tesori alla scienza; verbigrazia una cinquantina di scheletri, che, tenuti ritti con acconcie legature di fil di ferro, e disposti in bell'ordine, con tutti gli utensili, armi, amuleti ed ornamenti rinvenuti nelle tombe, avrebbero raccontata una bella pagina di storia delle prime genti italiche, e dati gli elementi ad ingegnose induzioni. Sarebbe riuscito in verità un museo da attirare molti curiosi al monastero di San Bruno. Ma, come sapete, quei bizzarri conventuali non gradivano le visite del prossimo, e la loro scienza amavano tenersela tutta per sè. Frattanto, il monachino biondo avrebbe ricavati i disegni di tutta quella ricca collezione scientifica. Udendo i discorsi del padre Anacleto, egli si rallegrava in cuor suo di possedere quel piccolo talento del disegno, un talento che non faceva chiasso, ma che per contro era altrettanto più utile, e che tramutava lui, adolescente accettato per grazia al convento, in un personaggio necessario. Bisognava vederlo, il nostro serafino, seduto sulla proda del fosso col suo ginocchio piegato, l'albo sul ginocchio e la matita in aria. Il soggetto dei suoi disegni era malinconico. Per la prima volta in sua vita, Adelindo Ruzzani adoperava la matita a copiare gli scheletri. Ma che cosa non si farebbe per l'amore della scienza? E i frati gli erano tutti intorno, un po' per vedere i suoi tratti di matita, un po' per contemplare quel grazioso profilo di monachino, che somigliava tanto a quello d'una bella ragazza.—Bene, bravo, stupendo!—erano le parole con cui essi incoraggiavano il pittore. Metto pegno che Raffaello d'Urbino non ebbe tante lodi dai personaggi che andavano nel suo studio, a vederlo lavorare. Ma sono anche disposto ad ammettere che Raffaello ne avrebbe avuto altrettante, se, scambio di esser lui, fosse stato, ad esempio…. la Fornarina.
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