IX.
Il convento di San Bruno, nel corso di una settimana, aveva mutato a dirittura d'aspetto. Prima, e sia detto senza ombra di mal animo, ci si dormiva molto; allora ci si vegliava, ci si viveva, ci si lavorava a gran furia. Avrete già indovinato che il gran lavoro della comunità di San Bruno era il giornale scientifico. Erano giunti i cinque nuovi colleghi aspettati; anch'essi nel vigore dell'età e pieni di buon volere. Le casse tipografiche erano state collocate a posto; il torchio egualmente; un gran disegno del padre Anacleto era sul punto d'incarnarsi, o se vi piace meglio, d'impiombarsi; perchè infatti era questione di piombo.
Di nove che erano pochi giorni addietro, i frati di San Bruno giungevano per tal modo al numero di sedici. Ed erano forse già troppi, per la quiete operosa a cui mirava il padre Anacleto.
—Fratelli,—aveva detto il priore, raccogliendo intorno a sè la cresciuta famiglia,—il nostro ordine accenna a voler prosperare velocemente. Dobbiamo rallegrarcene? Dobbiamo rammaricarcene? Certo, se ce ne rallegriamo, sarà per noi medesimi, non per il mondo, che mostra così di perdere ogni attrattiva sugli uomini. Ma anche noi dobbiamo badare ad un pericolo. L'essere in troppi nuoce, e forse sarà da pensare alla fondazione d'un nuovo convento, come fecero, per gli ordini loro, san Bruno e san Bernardo di Chiaravalle.
—Non siamo in troppi, finora;—osservò modestamente il padre Marcellino.
—Stiamo bene, così;—aggiunse il padre Restituto.
—Siamo come in famiglia;—ribadì il padre Atanasio.—Si sente una dolcezza nuova, che, per dirla col poeta, e guadagnandoci anche la rima, intender non la può chi non la prova.—
Il padre Atanasio esprimeva, assai meglio che non credesse egli in cuor suo, il pensiero di tutti. Era in tutti un sentimento di dolcezza che io non potrei significarvi appuntino, senza far capo ad un paragone di cucina. Ma badate, cucina poetica; una di quelle cucine ascose tra le gole dei nostri Appennini, cucina fuligginosa e nera, per modo che la fiammata dell'ampio cammino non disperda la sua luce benefica lungo le pareti, ma la concentri sulle otto o dieci persone beatamente sedute intorno al focolare, con la schiena protetta dall'alta spalliera delle cassapanche di quercia. Di fuori, cade a larghe falde la neve, e soffia acuto il rovaio; di dentro si prova la delizia dello stare al coperto e raccolti nella compagnia delle persone più care. La famiglia qui restringe i soavi suoi vincoli; l'ospitalità diventa amicizia; quella padellata di bruciate, che scoppiettano nel fuoco, vuol essere una cosa gustosa. Di tanto in tanto, e come per rendere più spiccato il confronto, si dà un'occhiata all'uscio, che si scuote ai buffi del vento; poi si torna a guardare la fiamma consolatrice. Dio di misericordia, per una di quelle serate sull'Appennino io rinunzierei non so che, perfino il mio ufficio di storiografo dell'ordine riformato di San Bruno. E come paiono sciocchi coloro che, avendo questa fortuna sotto la mano, si lagnano ancora e chiedono altro al destino! Ma pur troppo siamo tutti così; non intendiamo che tardi, essere le gioie della vita ristrette in poche immagini, in poche scene, quadretti di genere, anzi che di storia, e quasi sarei per dire di paese soltanto, anzichè di genere; perchè la figura non è sempre bella a vedere, e un po' di frappa con un raggio di sole attraverso può bastare alla pace dell'anima, come alla consolazione degli occhi.
Voi lo vedete, lettori; anche facendo una piccola digressione, mi trovo d'accordo coi frati di San Bruno. Poca gente, ma provata e simpatica, ecco il non plus ultra. Se c'è una bella figurina nel numero, tanto meglio; anzi credete pure che io la supponevo presente. È forse lei che ci fa amare le solitudini e riconoscere e abbandonare senza rimpianti le vanità' rumorose del mondo. Perchè, diciamolo pure, anche a risico di far insuperbire le donne, c'è sempre un po' di femminile nella nostra bontà. Quando c'è in noi della bontà, si capisce.
I miei monaci sentivano essi l'arcana influenza del serafino biondo? È lecito di sospettarlo. Sentite questa, che potrebbe mutare il sospetto in una mezza certezza. Il serafino, quel medesimo giorno che era entrato in convento, ricordando ciò che gli aveva detto in parlatorio il priore, si era arrisicato a toccare il tasto del giornale scientifico. E di là era subito nata tutta quella gran ressa che v'ho accennata più sopra. Perchè? I miei monaci sapevano pure che la loro rassegna non l'avrebbe letta nessuno, poichè essi non l'avrebbero mandata a nessuno di fuori via. Ma essi oramai sentivano di bastare a sè medesimi. Non se lo dicevano; forse non ci pensavano neanche; ma una nuova vena di tiepido umore era penetrata nel circolo vitale della comunità di San Bruno.
Quella medesima settimana comparvero finiti i primi saggi della operosità scientifica dei nostri claustrali. Cito ad esempio una memoria sulle stelle cadenti, del padre Bonaventura, che ne minacciava anche un'altra sulla costituzione fisica del pianeta Marte; uno studio sulla circolazione del sangue e sullo scambio molecolare, del padre Tranquillo; alcuni cenni sulla formazione geologica di Monte Acuto, del padre Ottaviano, e una dissertazione Sul passaggio di Annibale da Castelnuovo, del padre Anselmo, che nella sua qualità di bibliotecario, doveva essere l'erudito della compagnia. Padre Anacleto non voleva esser da meno de' suoi colleghi; aveva messo fuori certe note d'archeologia preistorica, raccapezzate lì per lì dopo il suo colloquio col duca di Francavilla. Ma perchè quelle note non davano ancora un appiglio ai disegni del padrino Adelindo, e perchè senza i disegni di quest'ultimo il giornale di San Bruno non poteva andarsi a riporre, il degno priore immaginò di finire i suoi studi con una descrizione degli scavi di Monte Acuto, che sarebbero stati disegnati dalla matita del serafino biondo. E perchè gli scavi in discorso erano ancora di là da venire, il padre Anacleto opinò che si procedesse immediatamente agli scavi.
La spedizione archeologica fu prontamente deliberata. Si vogava sul remo al duca di Francavilla; ma questi non era che un dilettante, e i nostri monaci volevano fare da senno. Inoltre, il signor duca faceva i suoi scavi nella caverna della Ripa; i nostri monaci scelsero un campo più lontano, sul pendìo settentrionale di Monte Acuto, nella caverna delle Streghe.
Non vi starò a dire perchè la chiamassero delle Streghe, lasciando immaginare a voi le leggende popolari che avevano assegnato quel luogo a notturno ritrovo delle amiche di Belzebù. Vi dirò invece, dando una sbirciatina nei quaderni del padre Anacleto, che il monte Acuto, studiato da quella parte, appariva incoronato da banchi di formazione terziaria, posti orizzontalmente sopra gli strati verticali della calcarea compatta giurassica, ond'era formato il nocciolo di quella catena montuosa. Quei banchi di calcarea grossolana, o meglio d'un sabbione indurito, erano tutti ripieni di gusci d'ostriche e d'altri bivalvi, come l'Arca diluvii, la Venus rugosa, la Terebratula bipartita, non senza tracce di polipi, di èchini, e d'altri resti organici poco determinabili.
La costiera del monte era brulla, o quasi; soltanto tra le fenditure della roccia spuntava qualche ciuffo d'erba, e qualche arbusto malinconico e scarno, che pareva maledire la sorte da cui era stato sbalestrato lassù. La caverna delle Streghe, vuoi per la difficoltà dell'accesso, vuoi per la tristezza del nome, non era mai stata esplorata. Soltanto poteva esserci stato qualche pastore, od anche qualche bandito, a rifugio; e delle scarse visite faceva fede una piccola traccia di sentiero, meglio intravveduta da lunge, che potuta seguitare da vicino.
Segnar meglio il sentiero e nei punti malagevoli renderlo più sicuro scavando qualche gradino nella roccia, fu la prima cura dei nostri esploratori. Intanto il priore, seguito dal serafino e dal padre Prospero, andava oltre, verso l'ingresso della caverna. Senonchè il padre Prospero, afflitto dalla sua polisarcìa che gli sembrava già due tanti più grave, dopo che il padre Tranquillo gliel'aveva battezzata col suo nome scientifico, protestò ben presto di non poter seguitare i due scoiattoli a cui si era accompagnato con una fiducia superiore alle proprie forze, e, come Mosè in vista della Terra promessa, si accasciò presso un cespuglio, in vista della buca, che gli pareva ancora troppo lontana, quantunque non ci fosse più a fare che un centinaio di passi.
—Andate, andate!—diss'egli.—Ricolgo il fiato e vi raggiungo.—
E si sdraiò su d'un lastrone, soffiando come un mantice.
Il serafino biondo sorrise, lasciò lo zio in quella postura, che aveva pure i suoi pregi, e seguitò il padre Anacleto pei meandri sassosi del sentiero fino all'entrata della caverna.
Lo spettacolo era meraviglioso. I due esploratori si trovarono davanti ad una vasta fenditura orizzontale della roccia. Più che una fenditura, pareva una corrosione, una carie gigantesca del monte. Si entrava da quell'apertura in un atrio vastissimo, la cui vôlta, di colore rossastro, era in alcuni punti tappezzata di felci, e in altri faceva mostra di grappoli quarzosi, che scintillavano alla luce riflessa del sole. Un masso enorme, piantato in mezzo all'entrata, spartiva in due quella grande apertura, e intorno a quel masso un prunaio stendeva i suoi rami spinosi, che già facevano pompa delle vette fiorite. Quell'allegria di tinte delicate, che temperava l'orridezza selvaggia del luogo, colpì l'animo del serafino e gli strappò un grido di gioia.
Gentil serafino! Com'era giovane! La vista d'un fiore lo faceva andare in visibilio. E anch'egli era un bel fiore, bianco, roseo, come quello del rovo che gli stava dinanzi. Se egli si fosse guardato allora in uno specchio, metto pegno che avrebbe gettato un altro grido; ma non di gioia, bensì di paura, al vedersi così bello, troppo bello per un padrino, che volesse rimaner tale agli occhi della gente.
Il padre Anacleto, con atto cortese su cui spero non troverete nulla a ridire, si accostò al prunaio, spiccò una ciocca di fiori e l'offerse al suo giovine compagno.
—È strano,—diceva egli frattanto, quasi per rispondere al grido di gioia che la vista di quel prunaio fiorito aveva strappato al serafino biondo,—è strano trovar de' fiori quassù, dove è già molto se si trova un fil d'erba.—
Il serafino accettò il ramicello fiorito, senza risponder parola. Povero serafino, compatitelo, perchè era tutto confuso, e dal pensiero della sua bambinesca esclamazione e dalla molto cavalleresca ma poco monastica gentilezza del priore.
—Bella quiete!—diss'egli poscia, sviando la mente e lo sguardo di là, ov'essi stavano muti, con le spalle appoggiate alle sporgenze del masso.
—Sì;—rispose il priore, crollando malinconicamente la testa;—c'è sempre un luogo più quieto della solitudine in cui si vive. A noi pareva già tanto tranquillo il convento di San Bruno, e qui si sta meglio ancora. Ma forse,—soggiunse il padre Anacleto, sorridendo,—ciò avviene perchè laggiù siamo in molti, e qui non ci troviamo che in due.
—È vero;—osservò candidamente il serafino.
E nel profferire la frase guardò involontariamente il priore. Era bello, il padre Anacleto, con la sua barba nera e lucente, i suoi grandi occhi turchini, le labbra di corallo tenero, e la pelle fine, morbida e perlata, che somigliava ad un fiore di pomo. Inoltre, parlava con un accento così dolce, e così penetrante ad un tempo! Il serafino non aveva mai osservata prima d'allora una cosa simile. E quella scoperta, e il pensiero di averla fatta, lo turbarono grandemente, senza che pure egli ne sapesse il come e il perchè.
—Dove sarà rimasto mio zio?—gridò egli ad un tratto.
E si spiccò dall'ingresso della caverna, per andare verso la china del monte.
—Vado io, se permettete;—gridò il priore, trattenendolo con un cenno della mano.—Voi siete così giovane, amico mio! Riposatevi.—
Il serafino chinò la testa e si ritrasse per lasciar passare il compagno. Nello sguardo a lui rivolto dal priore egli aveva creduto di scorgere un'aria di mezzo rimprovero, e fu quasi pentito del suo movimento involontario. Poteva anche pentirsi della piccola bugia che gli era sfuggita, anche quella involontariamente. O non lo aveva egli veduto, dov'era rimasto suo zio? Ma già, benedetti giovani, quando incominciano a confondersi!
Il padre Anacleto scendeva giù pel sentiero, e il serafino stava fermo sull'ingresso della caverna a guardarlo. Agli occhi suoi il priore non aveva più una tunica da frate, in quel punto; era un cavaliere del milletrecento e indossava il lucco fiorentino. Anche il cappuccio poteva stare, poichè era una foggia medievale comune a tutti, e monaci e cavalieri.
—Padre Anacleto!—mormorò il serafino.—Quali dispiaceri lo avranno condotto a fare questa vita solitaria? Se non avessi avuta questa sciocca paura…. avrei potuto domandarglielo. Non voglio aver paura. Non l'avrò più!—
Il padre Prospero, cercato con una premura che egli era ben lungi dal sospettare possibile, stava a colloquio col padre Tranquillo, che lo aveva raggiunto da pochi momenti. Il degno uomo si era fermato e sdraiato in quel punto della salita per ricogliere il fiato, e continuava ancora in quella rumorosa occupazione, quando gli capitò dinanzi il medico della comunità di San Bruno.
—Su, su!—gli disse il padre Tranquillo.—Queste passeggiate sono il rimedio della polisarcìa.
—Speriamolo;—rispose il padre Prospero.—Ma proprio credete che sia una cosa grave?
—Grave! Secondo s'intende. Per esempio, se non pesa a voi, tutto quel carico di oleina e di stearina che portate continuamente addosso, il male non è grave di certo.
—Ah! stearina? oleina? E poichè siamo a parlare di queste materie combustibili e illuminanti, vorreste dirmi, padre Tranquillo, che cosa potrei fare per liberarmene.
—Regime di vita! regime di vita! Da che deriva la polisarcìa, infatti? Cause remote assegnate a questo incomodo dell'umanità sono: il clima freddo e umido, che qui non c'entra affatto; il temperamento linfatico, che nel caso vostro mi pare c'entri anche meno; finalmente la vita sedentaria e l'uso di cibi in quantità soverchia e troppo nutritivi. Quale di queste due ultime cause abbia avuto maggior parte nel vostro aumento di volume, fratello carissimo, io non so, perchè da troppo pochi giorni ci conosciamo e voi non mi avete fatte le vostre confidenze; ma io sospetto che tutt'e due ci abbiano lavorato. Del resto, i rimedi son molti, e tutti adatti, qualunque sia stata la causa del male. Aria sottile e montanina…. eccola qui! Esercizi del corpo…. eccoli qui! Cioè no, non li vedo per ora, poichè siete seduto: ma per venire fin qua, e per tornare al convento, avrete fatto un bel po' di ginnastica. Vi raccomanderei inoltre l'uso dei subacidi; non già dell'aceto, che potrebbe esser cagione di flògosi.
—Flògosi!—esclamò il padre Prospero.—Di grazia, che bestia è?
—Non fate caso; è una delle nostre parole difficili, con cui si cerca d'ingrossare un pochettino le molestie dell'infermo, e le benemerenze del medico. Dite pure infiammazione; è lo stesso che flògosi. Eravamo ai subacidi; aggiungo le acque sulfureo-saline, quelle di Seltz e di Sedlitz, e segnatamente la dieta.
—Ah, sì la dieta? Mi sembra che il cuoco di San Bruno la faccia fare anche ai magri;—osservò il padre Prospero.—Del resto, meglio così; una cura fatta in comune è più tollerabile.—
Con questi discorsi il padre Prospero teneva a bada il compagno. E sapete perchè? Per non dargli il passo alla caverna. Il padre Prospero era seduto a mezzo del sentiero, e per lasciar passare il padre Tranquillo avrebbe dovuto star su; la qual cosa gli comodava poco, anzi nulla.
In quel mezzo capitò il priore. Stretto da fronte e da tergo, il povero signor Gentili doveva fare di necessità virtù e rimettersi in piedi.
—Temevo che vi fosse intervenuto qualche guaio;—disse il padre Anacleto, arrisicando anche lui la sua piccola bugia.
—Oh no, si chiacchierava di medicina con padre Tranquillo, che è veramente un pozzo di scienza. Padre, voi siete un gran medico, e se non mi guarirete di questa pappagorgia, la colpa non sarà vostra sicuramente.
—Avanti, dunque, e del moto;—concluse il padre Tranquillo.—Andiamo a vedere questa caverna.
—È stupenda;—disse il priore.
Anch'egli aveva fretta di giungere, e certo nel lodevole intento di dar principio agli scavi. Anche gli altri compagni, tracciato alla meglio il sentiero, incominciavano a venire sulle orme dei primi.
Giunta la comitiva ad una svolta del sentiero d'onde si vedeva l'apertura della roccia che formava l'ingresso della caverna, si parò davanti agli occhi dei nostri viaggiatori la bella figura del serafino, che era rimasto là, accanto al masso, nella postura in cui lo aveva lasciato il padre Anacleto.
—Miracolo!—gridò il padre Atanasio.—Un'apparizione!
—San Bruno adolescente!—soggiunse il padre Ottaviano.
—Dite piuttosto santa Teresa, o qualche altra santa claustrale;—entrò a dire il padre Marcellino.
Quel paragone femmineo, del resto naturalissimo per chiunque avesse veduto in quel punto il fraticello solitario, ritto in piedi sull'ingresso della caverna, turbò fortemente il padre Prospero, che temeva sempre di vedere scoperto il segreto della signorina Adele Ruzzani, sua bella e capricciosa nepote.
—-Sì, infatti….—balbettò egli.—Il mio nepote ha una faccia che sembra piuttosto una ragazza. Beato lui, che conserva la sua gioventù!
—Rimpiangereste forse la vostra?—domandò il priore.—Essa non vi servirebbe a nulla, nel chiostro di San Bruno.
—Eh, dopo tutto,—rispose il padre Prospero,—ed anche a non servirsene affatto, mi pare che la gioventù…. Ditelo voi, padre Tranquillo, che sapete tante cose. La gioventù è proprio così inutile, come mostra di credere il nostro degno priore?
—La gioventù,—disse il padre Tranquillo,—è uno degli elementi della salute. Direi quasi che è il solo. Almeno,—soggiunse, temperando la frase,—si potrebbe sostenerlo con qualche apparenza di verità. Infatti, tutto ciò che noi facciamo per la nostra salute, quando la gioventù se n'è andata, non è che un seguito di palliativi, più o meno felici, per dissimulare la mancanza di un elemento essenziale.—
Ne parlavano con molta tranquillità, di palliativi e di salute, essendo tutti così giovani, che il più vecchio di loro passava a mala pena i quaranta. Ed era strano il vederli, anche più strano del vedere quel biondo serafino in abito di frate; era strano, dico, di vedere tanti uomini, giovani ancora, e già stanchi delle tempeste della vita; stanchi delle tempeste, e così felici, così allegri nella piccola compagnia di naufraghi che erano riusciti a formarsi entro una piega dell'Appennino. Il contrasto tra il grande e il piccolo mondo, tra la società naturale e l'artificiale, non poteva essere più spiccato di così. E il vantaggio restava alla società artificiale, per la semplicissima ragione che la naturale si è fatta da sè, laddove l'artificiale ce la foggiamo da per noi, e ci prendiamo gusto fino a tanto che dura.
Ma in fin de' conti, o non è la medesima cosa nel gran mondo? L'umanità vive, con tutti i suoi dirizzoni e con tutte le sue tirannie; noi in quella vece passiamo. Guastarci il sangue, che giova? O non è forse meglio lasciar correre tutto ciò che vuol correre, e lasciar stare tutto ciò che vuol stare? A voler fare diverso, non si cava un ragno da un buco. Lasciate pure che gridino contro l'egoismo del piccolo mondo, e contro la stravaganza delle società artificiali. Al diritto della tirannia si contrappone il diritto della resistenza; e sono naturali ambedue.
Vi siete già accorti, o lettori, che io cedo un pochettino all'influsso dell'ambiente. Sto coi frati e zappo l'orto.